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lunes, octubre 24, 2011

La tradizione primordiale




Templari: i guerrieri di Dio
di Mario Farneti


Per comprendere il senso e il significato della nuova milizia che sorse e si radicò profondamente nella cristianità agli inizi del XII secolo, è necessario rifarsi ad una tradizione più antica, quella che, specialmente da parte di alcuni intellettuali italiani della prima metà del XX secolo (Julius Evola, Guido De Giorgio, Gruppo di Ur), è stata individuata e studiata sotto il nome di tradizione primordiale.
Nella protostoria, i popoli di origine indoeuropea mantenevano al loro interno una stretta suddivisione in caste in un contesto nel quale la figura del guerriero rivestiva una funzione dinamica, regolata da una disciplina interiore tesa verso il dispiegamento della potenza che agisce sulla materia e la modifica in maniera violenta.
Solo alla casta dei guerrieri era demandata la missione di confrontarsi in guerra e ad essa i guerrieri si votavano. In una società ancora priva del concetto di democrazia, la difesa del popolo non era demandata al singolo cittadino – costretto, in un secondo tempo, a lasciare la sua abituale occupazione e impugnare le armi, così come avviene oggi – ma a quegli uomini, guerrieri o eroi, e non semplici soldati, consacrati a questo fine dalla casta sacerdotale.
La crisi di questo modello è già riscontrabile nell’Iliade dove al pari delle figure di Ettore e Achille, entrambi rappresentanti della casta dei guerrieri, convive e si afferma Ulisse, che spezzando i canoni tradizionali, inaugura quella che è oggi conosciuta come “guerra sporca”, portando, con uno stratagemma, il conflitto entro le mura di Troia e massacrandone i cittadini inermi, prima ancora che il confronto tra i guerrieri avesse decretato in maniera definitiva le sorti del conflitto.
Prima della decadenza e della scomparsa del modello tradizionale, che sopravvisse ancora a lungo solo a Sparta, il confronto armato rivestiva in sé una funzione sacra: non si trattava semplicemente dell’atto di uccidere, ma di una sfida con la morte sul suo stesso terreno e ciò costituiva il superamento della morte stessa.
Nell’affrontare la morte, il guerriero la sfugge e nel fuggirla l’affronta.
In questo senso il guerriero si sottopone ad una disciplina interiore ben codificata, severa, intransigente, che presuppone un percorso iniziatico che in molti casi sfocerà nell’ascesi.
Il guerriero è votato al sacrificio, in senso etimologico (sacrum facere), così com’è votato al sacrificio il suo avversario: entrambi sono vittime sacrificali e non carne da macello, così come ci hanno invece mostrato non solo le guerre del XX secolo, combattute da cittadini in armi, da eserciti popolari, ma anche tutte le guerre combattute sin dai tempi della Roma repubblicana o della democratica Atene.
Una rara sopravvivenza della tradizione primordiale si prolungò in Estremo Oriente fino al XIX secolo, e fu rappresentata dal Bushido, o Via del Guerriero cui in Giappone si votava la casta dei Samurai, che fu al tempo cancellata in pochi anni dal processo di sfrenata modernizzazione di quel paese.
Ma che in cosa si differenzia il guerriero dal soldato?
Il guerriero possiede un’iniziazione, il soldato un addestramento, il guerriero uccide il guerriero suo antagonista per sfidare e superare la morte, il soldato uccide più genericamente il nemico, spesso senza distinguere tra civili e militari, per dare la morte e per esserne strumento e succube a volte ignaro.
La casta cui il guerriero appartiene gli impone di difendere la terra, la casa, i templi, facendosi uccidere e uccidendo in nome di Dio, perché la terra per la quale combatte gli è stata donata da Dio e costituisce la base della sua ascensione ed è perciò irrinunciabile. Se infatti perdesse la terra, con questa perderebbe le sue radici spirituali e non le perderebbe solo lui, ma l’intero popolo che è chiamato a difendere.
Premesso questo, possiamo meglio comprendere quale fosse il retaggio tradizionale, culturale e ideale che giustificò in Occidente la comparsa dei monaci guerrieri: i Cavalieri del Tempio.
Dobbiamo, a questo proposito, premettere che i nove fondatori dell’Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo, guidati da Hugues de Payns nel 1118, appartenevano tutti alla stirpe franco-normanna.
Una stirpe proveniente dall’Europa Settentrionale, che si era sviluppata da una società articolata in caste chiuse, parallela e geneticamente collegata alla società indoeuropea primordiale che aveva dato origine, più di duemila anni prima, alla civiltà degli Ellèni e dei Romani.
Non per nulla, nel medioevo, con la discesa verso il Mediterraneo dei popoli nordici, la società era tornata ad essere suddivisa in tre caste: quelli che pregavano, quelli che combattevano, quelli che lavoravano.
Molti storici hanno voluto riscontrare, nella costituzione di un ordine di monaci-cavalieri, come quello dei Templari, una rottura dello schema sul quale si sosteneva la società medievale, poiché i monaci, cui era demandato l’ufficio di pregare, avevano impugnato le armi. Ma si tratta di una visione che, a mio parere, non considera le implicazioni storiche e antropologiche cui ho accennato.
La fondazione dell’Ordine del Tempio è invece coerente con il modello indoeuropeo primordiale che attribuisce alla casta dei guerrieri una missione di tipo spirituale, con l’unica differenza che in epoca protostorica, il guerriero si consacrava alle divinità pagane, mentre il cavaliere del Tempio si consacrava al Cristianesimo, alla Cristianità e alla sua difesa.
Perciò non vi fu in questo processo una commistione di ruoli e/o rottura di schemi, ma un ritorno coerente alla tradizione primordiale.
La veglia d’armi, la sacrazione e la cerimonia d’iniziazione ripetevano un percorso spirituale profondamente radicato nella civiltà occidentale.
All’interno dell’Ordine stesso le funzioni continuavano poi ad essere ben distinte. A fianco dei cavalieri e dei serventi esistevano i presbiteri dell’Ordine, che non portavano armi; perciò non vi era affatto commistione di ruoli.