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martes, septiembre 20, 2011

Articoli in Italiano Cavalleria medievale tra mito e realtà



Il cavaliere, una delle figure mitiche del medioevo letterario e cinematografico: alto sul suo destriero, racchiuso nell’impenetrabile armatura pesante, riconoscibile solo per il cromatismo vivace delle insegne. Nell’immaginario collettivo esso appare inginocchiato dinanzi al sovrano mentre con la bendizione della Chiesa riceve l’investitura, e poi lanciato al galoppo in difesa della Fede e dei deboli... ma quanto di vero esiste in questa immagine eroica e quanto invece risulta dalla somma di frammenti reali ma provenienti da epoche diverse?

E soprattutto, se il cavaliere medievale è, per definizione, nobile e appartiene alla corte del sovrano, è possibile rintracciare la sua presenza anche in Italia, dove il basso medioevo vede il fiorire di quell’esperimento unico che sono i liberi Comuni, in completa antitesi con il mondo dei signori feudali illustrato dalle Chanson de Geste? Su quest’ultimo quesito in particolare si sono interrogati gli storici sin dal secolo scorso, giungendo a rintracciare fra archivi e documenti i segni della presenza della cavalleria anche in Italia.


La cavalleria medievale: origini
Il termine “cavaliere”, che indica genericamente l’armato che presta servizio militare a cavallo, appare in realtà tardi nel linguaggio delle armi; il medioevo preferisce infatti il termine latino “miles”, che indica “il” combattente per eccellenza, contrapposto al termine “pedes” che indica il semplice fante appiedato.

Il miles medievale è per definizione un cavaliere, che in questo caso non significa semplicemente un armato a cavallo, ma più propriamente un armato che usa il cavallo secondo modalità particolari di combattimento.

E’ noto infatti come sin dall’antichità classica esistano corpi armati a cavallo; esso però viene usato principalmente per gli spostamenti veloci e per gli attacchi a sorpresa - nel corso dei quali vengono scagliate aste leggere con la spinta del braccio o frecce per mezzo di piccoli archi – mentre nel combattimento vero e proprio gli armati scendono a terra per affrontare il corpo a corpo.

E’ solo con il Medioevo che nelle battaglie appare la tecnica della carica a cavallo – lancia in resta, diremmo con un termine che però è già tardo, quasi rinascimentale – in cui il cavaliere regge saldamente la lancia dirigendola, mentre è il cavallo a fornire la propulsione e la forza d’urto necessaria a sfondare le linee nemiche.

Secondo alcuni autori questa nuova modalità di attacco, le cui più antiche testimonianze iconografiche risalgono forse alla tapezzeria di Bayeux[1] , fa seguito alla diffusione di accorgimenti tecnici quali la staffa e la sella con arcioni; secondo altri questo nesso sarebbe casuale, ed infatti già nell’antico Oriente la staffa esiste, ma nessuno vi aveva mai collegato l’idea di usarla per avere maggiore stabilità e lanciarsi direttamente contro il nemico anzichè semplicemente per caracollare (altro termine, ahimè, molto più tardo, ma che rende l’idea...) lanciando frecce. Comunque sia andata la faccenda, resta il fatto che fra il 1000 e il 1100 i gruppi armati che difendono gli interessi dei signori feudali nelle cui mani sono le terre europee, sono un’elite specializzata in un tipo di combattimento che prevede il cavallo come parte attiva.

Elite, chè mantenere un cavallo ha i suoi costi, e così le armi, sia da offesa – lance, spade – che da difesa; c’è poi l’addestramento, lungo e faticoso, e la necessità di mantenersi “in forma” anche nei periodi in cui non si è impegnati in guerra. Così, già nel IX secolo i sovrani dei nascenti regni romano-germanici iniziano a circondarsi di una corte di fedelissimi, perfettamente armati ed addestrati, ovviamente “cavalieri”, a cui come segno di favore e gratitudine offrono terre su cui esercitare un qualche dominio; si tratta in effetti, come mette in evidenza chiaramente Jean Flori, di una forma di compenso o paga, volta a permettere a questi “difensori del regno” di dedicarsi appieno alla loro funzione, senza troppe preoccupazioni per procacciarsi il cibo o comunque un reddito.

La cavalleria nasce quindi secondo questo autore eminentemente come professione, derivando direttamente dall’usanza germanica del capo-tribù di circondarsi dei guerrieri più forti e valorosi; quando i capotribù si stanziano nelle terre d’Europa e si trasformano in re, ecco che allora questi “comites” – compagni, d’arme e d’avventure – si trasformano nelle varie “Tavole Rotonde” o compagnie di “Paladini” esaltate dalla letteratura successiva.


Chi sono i "cavalieri"?
Gli storici a questo punto si pongono un problema fondamentale: a quali persone è realmente possibile svolgere “il mestiere delle armi”?

L’immaginario collettivo vuole il cavaliere come appartenente alla “nobiltà”. Ma il concetto di nobiltà, inteso come discendenza di sangue e appartenenza ad un casato di antica origine, è di gran lunga successivo rispetto all’epoca che stiamo esaminando; la società del X secolo è dominata da un’aristocrazia guerriera che a volte si fregia del termine “nobile”, inteso come aggettivo che indica, in vario grado, una predisposizione d’animo piuttosto che un rango sociale.

Con il diffondersi dell’incastellamento[2] nel X secolo si assiste però ad un fenomeno nuovo, che prelude alla strutturazione di una società più simile a quella che ci è oggi familiare.

Le famiglie aristocratiche – famiglie allargate, a struttura orizzontale, in cui contano i rapporti di parentela fra fratelli e zii, sia per parte maschile (agnati) che femminile (cognati) – si radicano nel territorio, fortificano una propria dimora e la trasformano in un nucleo di potere locale, sempre più autonomo rispetto ai deboli poteri centrali. I vassalli non sono più un seguito armato del sovrano, ma divengono a loro volta piccoli capi territoriali che gestiscono la loro proprietà. E’ fondamentale che questa proprietà mantenga una certa estensione di terre e di uomini sottomessi, in regime di libertà, semilibertà o servitù; diviene quindi essenziale che non venga frammentata fra i vari eredi.

Si modifica quindi la struttura familiare, che diviene in questo momento “verticale”, ossia dominata da rapporti di discendenza patrilineare. E’ l’epoca in cui compare il patronimico, e da esso il cognome, inteso come segnale di appartenenza ad un lignaggio che si estende nel tempo di padre in figlio. Il figlio maggiore eredita il castello, il titolo, il patrimonio di famiglia. Le strategie matrimoniali cambiano, e si diffondono i matrimoni con membri esterni alla famiglia (esogamici) perchè comunque non esiste più il rischio di dover cedere parte delle proprietà ad altri clan.

I figli cadetti - nonchè quelli nati al di fuori di un matrimonio cristiano che ancora stentava a definirsi ed affermarsi - se sono femmine servono a rinsaldare legami di alleanza con castellanie vicine, attraverso matrimoni accuratamente studiati a tavolino. Se sono maschi... ecco il problema di fondo... se sono maschi gravitano attorno alla corte, mantenendo lo stato di juvenis, ovvero di non sposato, a vita; offrono i loro servigi armati al fratello maggiore o ad uno zio che in cambio li mantiene; insidiano le femmine di corte, elaborando un’etica – cavalleresca, per l’appunto – che autorizza l’avventura amorosa; cercano soddisfazione e bottino nell’impresa guerresca; talora, in virtù delle loro capacità, giungono ad ottenere in moglie una ricca ereditiera o una vedova con possedimenti e ad accasarsi, formando un loro lignaggio.

Ecco, una parte della cavalleria è data da questa porzione di aristocrazia che è tagliata fuori dalla trasmissione ereditaria del potere; ma non tutta la cavalleria è costituita da aristocratici cadetti o bastardi. Accanto ad essi nella corte esistono armati a cavallo di ben altra estrazione.

Sia Duby, sia Flori, evidenziano la presenza di ricchi allodieri, ovvero proprietari di terre che pur non avendo antenati prestigiosi hanno denaro sufficiente per armarsi e subire l’addestramento cavalleresco, e quindi si pongono al servizio del signore locale, nella speranza di fare carriera, mettersi in mostra con il valore ed ottenere un piccolo feudo; analoga aspirazione è coltivata da tutta una massa di “cavalieri” dipendenti, che esercitano la cavalleria come mestiere per sopravvivere, provenendo da classi sociali basse, di ambito rurale, o addirittura affrancati dallo stato servile per poter accedere al servizio armato del signore. I documenti mostrano in tutta Europa esempi – non numerosi, ma significativamente presenti con regolarità - di questo tipo di cavalieri che riescono alla fine ad ottenere una promozione sociale, sia ricevendo dal signore terre da gestire in proprio, sia sposandosi ad un livello sociale più alto del loro.

Flori, sulla scorta di queste evidenze, conclude che la cavalleria sino a tutto il XII secolo non è una classe sociale chiusa, coincidente con l’aristocrazia, ma un sistema aperto, con possibilità di accesso dal basso; in pratica quindi “una professione onorevole ed invidiata, che l’aristocrazia tende a trasformare in una nobile corporazione”[3].

Non a caso la società medievale raffigurava se stessa come suddivisa in tre “ordini” con carattere funzionale, quelli che pregano, quelli che lavorano, quelli che combattono: le tre attività fra le quali qualsiasi uomo adulto doveva collocare la propria esistenza.

L’ingresso nella “cavalleria”

Uno dei luoghi comuni della mitologia cavalleresca è quello della cerimonia di investitura, il cosiddetto adoubment (tradotto in molti testi come “addobbamento”), in cui il nuovo cavaliere riceve direttamente dal sovrano, o comunque da un suo superiore, le insegne della cavalleria – la spada, gli speroni, lo stendardo – in genere precedentemente benedette o consacrate da un vescovo, che può o meno essere presente. Le spade degli eroi della Chanson medievale sono oggetti resi sacri dalla presenza di particolari reliquie chiuse nel pomo, e devono servire al nobile cavaliere – nobile come qualità d’animo, non nel significato più tardo di classe - per proteggere la Chiesa dai pagani e i deboli dalle ingiustizie.

Questo rappresentazione “rituale” della “vestizione” del cavaliere, tramandata dalla letteratura e diffusa dal cinema, è in realtà “un’immagine composita, nella quale confluiscono tratti che, apparsi in epoche differenti, non sono mai coesistiti”[4].

Gli storici individuano concordemente l’origine di questi rituali nelle tradizioni germaniche che si diffondono in Europa nell’alto Medioevo. Le tribù germaniche erano seminomadi, eminentemente guerriere e al loro interno ciascun uomo adulto aveva il dovere di prendere le armi per la comunità; così nel momento in cui un giovane raggiungeva l’età adulta e si apprestava ad entrare nel numero degli armati, era il capo – guerriero lui stesso – a consegnargli le armi, in una sorta di scarno rito di passaggio. Flori nota che si trattava probabilmente di nulla più che una consegna degli “strumenti del mestiere” inquadrata forse in un rito di tipo iniziatico.

Ma la consegna della spada ha, nel mondo germanico – e non solo - anche un altro significato, di tipo simbolico: la spada è il segno del potere, del diritto di comandare la tribù ma anche del dovere di proteggerla dai nemici esterni – con le armi – e dal disordine interno, attraverso la giustizia.

La simbologia della spada si tramanda nei secoli attraverso i rituali di incoronazione dei sovrani; nel 1108 il re di Francia Luigi VI è incoronato dall’arcivescovo di Sens con un rituale preciso[5]: tolta la spada della milizia secolare (ovvero lo strumento di lavoro, la spada dell’uomo adulto e del guerriero) egli cinge la spada della Chiesa “per la punizione dei malfattori... la difesa delle chiese e dei poveri”. La cerimonia e la preghiera che la accompagna sono assolutamente analoghi a quella che si trova in un rituale di incoronazione germanico della fine del IX secolo, forse il più antico giunto sino a noi. Il rito di consegna della spada accompagnata dalla sua sacralizzazione è quindi, a detta di Flori, di origine regia, e persiste per secoli.

Fra X e XI secolo, ovvero quando si abbozza la gerarchia feudale, la sua applicazione slitta dal sovrano ai principi a lui sottoposti, e poi via via alle gerarchie feudo-vassallatiche inferiori, a sancirne l’effettiva presa di potere. Si tratta quindi sempre di un rito di trasmissione di prerogative regali, e non di un rito di iniziazione. Attraverso quali passaggi allora esso giunge ad apparire come formula di consegna delle armi ai semplici armati a cavallo, che non solo non hanno potere proprio, ma addirittura sono in varia misura sottomessi?

La Chiesa si impadronisce della cerimonia di consegna delle armi nel corso dell’XI secolo, in un contesto in cui, cessato il pericolo delle invasioni[6] il vero rischio per le popolazioni europee era costituito dai signori feudali e dalle loro bande armate. Questi, ormai di fatto indipendenti dal potere centrale, cercavano di rosicchiarsi potere (ovvero terre) a vicenda, mantenendo un clima di tensione; ma anche quando ciò non avveniva, la vita nelle campagne non era tranquilla, poichè i “cavalieri” del feudatario locale si procuravano comunque un reddito vessando “quelli che lavorano” e tenendoli sottomessi con la paura di scorrerie e saccheggi; quando poi i contadini erano troppo poveri, le armi dei cavalieri spesso si rivolgevano a depredare le ricche parrocchie e i monasteri.

Ed ecco che accanto al concetto di “pace di Dio”[7] nasce l’ideologia del cavaliere “consacrato”, che difende innanzitutto la Chiesa e i deboli, combattendo contro l’ingiustizia; e laddove questo non è sufficiente a porre sotto controllo la turbolenza degli armati, viene accentuato il carattere di “miles Christi”, cavaliere al servizio di Dio nella lotta per la fede, da cui deriverà in breve tempo la figura del crociato e gli ordini monastici militari. Nell’XI secolo sono ormai numerose le formule di consegna delle armi a semplici cavalieri che ricalcano quelle di consacrazione regia.

Altri elementi del rituale di investitura “classico” sono la vestizione del cavaliere con armi particolarmente ricche, cerimoniali, e vesti dal colore simbolico; nonchè l’uso del bagno purificatore prima della cerimonia. Essi si rintracciano a partire dal XII secolo, e curiosamente non sempre sono legati ad una cerimonia di tipo religioso. All’inizio del XIII secolo appare in alcune aree la “veglia d’armi”, ovvero il trascorrere la notte prima della cerimonia in digiuno e in preghiera.

Come si vede si tratta di elementi molto diversi fra loro, che appaiono in tempi successivi, non sempre sovrapponendosi.

Nel frattempo però il concetto di cavalleria si è evoluto: indipendentemente dalla Chiesa, i combattenti riconoscono delle proprie regole di comportamento, una sorta di codice d’onore dettato più dall’utilità pratica che da convinzioni morali; secondo esso ad esempio il cavaliere non attacca mai un suo collega a tradimento, nè porta lo scontro all’ultimo sangue, preferendo in questo caso catturare vivo l’avversario per poi godere del giusto riscatto... è a tutti gli effetti un codice deontologico di una professione come tante altre, che va ad affiancare l’etica della Chiesa nel costruire quella che definiamo l’“ideologia cavalleresca”.

Ma esso mostra un’altra cosa molto importante: la cavalleria ha assunto coscienza del suo essere gruppo sociale d’elite, e sta elaborando regole di comportamento e rituali propri, modi di svago caratteristici quali il torneo e la giostra - in auge dal XII secolo – e, soprattutto, la tendenza a “chiudersi” in una casta ad accesso regolamentato.

Il vero e proprio rituale di adoubment, accompagnato dalla simbologia sacra dei singoli elementi indossati, e dalla festa profana che lo sugella, conosce la sua diffusione proprio in questa fase, divenendo il rito iniziatico che conosciamo dalla letteratura.

Il fenomeno si sviluppa in parallelo infatti con il graduale divieto di accesso alla “professione” volto a chi non ha antenati cavalieri, e poi, subito dopo, a chi non è figlio di cavaliere. Cavalleria inizia a coincidere con nobiltà, intesa come ceto, ma il passaggio non sarà mai netto, se non in epoca tarda, quando ormai la cavalleria avrà perso la sua funzione militare fondamentale.

Infatti per tutto il XIII e il XVI secolo sono frequenti comunque le semplici cerimonie di massa, sul campo di battaglia, in cui il sovrano direttamente nomina cavalieri i più valorosi, indipendentemente dalle loro origini. Il potere del sovrano può quindi ancora scavalcare le regolamentazioni che la cavalleria stessa ha imposto.